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Dal Tevere al Polo Nord

L'avventura di un dirigibile.


di Gianluca Casagrande



Ebbi un brivido imboccando lo stretto passaggio che s'inoltrava nel bosco. Erano anni che non mi fermavo alla villa. Quella mattina passai vicino al fiumeper una commissionee decisi di svoltare al bivio per il paesequasi involontariamente. La macchina sobbalzava ed io ero costretto ad un'andatura che non ricordavo da quando imparai a guidare. Cominciavo a divertirmiogni buca era divenuta una scommessa. L'aria era fredda ma mi venne voglia di abbassare i finestrini per assaporare l'odore della campagna. Lo feci e l'aria frizzante pervase l'abitacolo facendo uscire quel terribile odore provocato dall'aria riscaldata dal motore. Vidi la villa in lontananza e mi tornarono alla mente immagini ormai dimenticate. D'un tratto gli odori della campagna divenneroo meglio ritornaronogli odori della mia infanziadelle corse nei prati e delle interminabili partite di pallone. Guardai l'orologio digitale del cruscotto e notai che cominciavo ad essere in ritardo. Mi assalì la preoccupazione di non riuscire ad effettuare la commissione che mi era stata affidata. Per qualche secondo rimasi indeciso su cosa farepoi capii che quella non era la giornata per identificare cos'era giusto e cos'era sbagliato. Non era ciò che insegnavo ai miei figliperò quel giorno era così e basta. Ripresi a guidarecon quell'andatura ridicolalenta e traballantedecisamente diversa da quella scattante e frenetica che ogni mattina mi costringeva a mandare all'inferno più della metà delle macchine che incrociavo sulla mia strada. Giunsi al cancellofermai la macchina e scesipoggiando i piedi sulla terraindurita dal freddo. Il cancello era chiuso con un lucchetto. Avevo sempreda quando me ne ero andatola chiave di quel lucchetto nel portafogli. Non me ne sono mai separatoquasi per paura di perdere quel legame che mi univa alla villaanche se poi non ci tornavo da anni. La chiave era lìsotto alla fotografia dei miei due bambini. La presi e la infilai nel lucchetto. Mi tremavano le maniprobabilmente per il freddo. Quando scattò la serratura la catena cadde a terra e il cancello emise un leggero cigolio; con una spinta lo aprii. Entrai nel giardinocamminando nell'erba bruciata dal gelo dell'inverno. Le erbacce arrivavano alle ginocchiaanche se ripiegate su se stesse per la morte che le aveva colpite con le prime gelate. Solo qualche pianticella autunnale stava ritta in quella posa di sfida verso il destino perverso che l'aveva concepita. A sinistra vidi il tavolo di granitosotto il pergolatoormai quasi distruttoche d'estate concedeva il ristoro dell'ombra sotto i colori meravigliosi del glicine in fiore. Su quel tavolo si consumavano le festose domeniche con gli amici a mangiarea berea cantare in allegria. Ora era lìsilenzioso e cuposotto i resti di un intreccio di legni marciti a memoria del nostro disinteresse per quella casa. Credo di essere l'unica persona ad essere ritornata dopo la visita ufficiale di sei anni primaeffettuata esclusivamente per la definizione dell'eredità. Da allora non ci aveva messo più piede anima viva. La costruzione aveva retto benei muri erano ancora in ottimo statoa parte qualche crepa e qualche pezzo di intonaco che aveva ceduto alle pressioni del tempo. Tutte le finestre erano sbarrate da travi di legnocosì come le porte. Mi tornarono alla mente le volte che Giulio ed io uscivamocalandoci dalla finestra della nostra cameralasciandoci penzolare e poi atterrando facendo affidamento solo sulle nostre gambe. Che incoscienti: ora che guardavo quella finestragli occhi della mia età mi lasciavano impietrito a considerare l'altezza che la separava dal terreno sottostante. Girai intorno alla casa e vidi quello che rimaneva dell'ortosul retro. Scossi il capo e proseguii oltre. Quando fui sull'altro lato della casa mi apparvemaestosoimponentemeravigliosoil tiglio. Non mi vergogno affatto a confessare che scoppiai in lacrime quando lo vidi. La mia mente era così pervasa dai ricordidai profumi di quella campagnadal dolore della vista della decadenza di quel mio paradiso dell'infanzia che quando lo rividicompagno di tante mie solitarie giornatenon resistetti e piansi a dirotto. Tratti d'erba avevano resistito al gelo protetti dal calore dell'intreccio dei rami bassinodosi e appesantiti dalle tante primavere profumate e dai tanti autunni del colore del fuoco. Asciugai gli occhi e mi avvicinai al tronco: era talmente grande che nemmeno tre persone tenute per mano sarebbero riuscite a cingerlo completamente. Lo toccai con delicatezza ed il suo contatto mi fece rabbrividire. Lo toccai di nuovopiù intensamente e chiusi gli occhi. Vidi la casavivacon la nonna ed il nonno sulla portacon il sole che li accecava e sentii i profumi dell'estate. Staccai le mani dalla corteccia e tornai al presentein quella desolazione che mi circondava. Guardai i muri della casaalle mie spalle e vidi che da quella parte si era conservato l'intonaco ancora con la tonalità originale. L'ombra del tiglio aveva protetto il colore paglierino che aveva dato il nonno pochi anni prima di morireormai da più di trent'anni. Come aveva fatto a conservarsi così bene? Il resto della casa era ancora in buono statoè veroma il colore era decisamente sbiadito che quasi non si distingueva più. Con la coda dell'occhio vidi la piccola cuccia di Mikiil cane del nonno. Era ancora in buono stato. Mi ricordo ancora quando morì: avevano appena terminato il tratto d'autostrada a mezz'ora da qui. Fu un camion a travolgerlo; luicurioso come semprenon si era lasciato sfuggire quell’avvicinarsi del progresso vicino al suo territorio e partìquel pomeriggio di tanti anni addietroper incontrare quella striscia di cementocosì maledettamente grigia. Mi ricordai anche di quella mattina che lo portammo in paese e ci scappò. Quando tornammo a casa il nonno ci rincorse per quasi mezz'orapoi ci costrinse a lavorare l'orto per tutto il mese. Quando tornò Mikicirca tre giorni doposi prese anche lui la sua razione di punizionicompresa quella di rimanere alla catena per lo stesso tempo che rimase a zonzo per il paese. Sono certo che quelli furono per lui i tre giorni più lunghi della sua vita. Quando morìil nonno ci disse che aveva quasi quindici anni. Noiin lacrimeconsiderammo che morì che era poco più vecchio di un bambino. Il nonnosorrisecon quella sua aria così gentile e ci spiegò come funziona la conta degli anni di un cane. Fummo un po' più sollevatima restava il fatto che aveva vissuto solo quindici anni e a noi lasciò un vuoto spaventoso. Quella cuccia rimase per molti anni un luogo sacro. Il nonno non volle più altri cani e ora comprendo - quasi non ci avevo mai pensato - come mai quando Luca mi chiese di comperargli un cagnolino mi opposi fermamente e considerai chiuso immediatamente l'argomentosenza possibilità di ricorso. Il mio inconscio evidentemente rifiutava di ripetere una simile sofferenza e di farla vivere ai miei figli. Distrattamente mi appoggiai al tiglio e mi tornarono di nuovovivele immagini di tanti anni addietro. Vidi Giulio mentre aiutava il nonno a costruire il pergolato e mi vidiseduto sui gradini con Miki in gremboad ammirarli da lontano. Mi piaceva vedere il nonno lavorareaveva sempre quella tranquillità e quella serenità che contagiava tutti quelli che avevano a che fare con lui. Mi staccai con decisione dalla cortecciaspaventato. Non era più un ricordouna sensazione: quando toccavo la corteccia del tiglio quello che vedevo era realevivopresente. Provai di nuovo e vidi la nonna sulla porta che ci chiamava per il pranzo. Era lìera proprio lì. Ero sicuro che se fossi corso verso la porta avrei potuto toccarlaabbracciarla. Il mio cuore cominciò ad accelerare i suoi battiti. Non riuscii a staccarmi dalla corteccia dell'alberovolevo continuare a vivere quel bellissimo momento. Arrivò anche il nonno chesudatodepose il cappello sulla sedia vicino all'ingresso ed entrò all'interno della casa. Ansimai per il terrore di perdere il resto della scenama l'immagine continuò a materializzarsi nel mio cervello. Ero in cucina e vidi la nonna che portava a tavola il pranzo. Giulio ed Io non eravamo ancora rientrati dal giardino. "Ha telefonato." - stava dicendo la nonna mentre versava la minestra al nonno. "Cos’ha detto?" - chiese il nonno guardando in continuazione verso la porta. Parlavano sottovoce. La nonna era molto nervosa. Era stranonon vedevo più immagini legate alla mia memoriaerano momenti a cui io non avevo avuto parte e questo mi imbarazzava. "Hanno detto che è meglio che tornino a casa." - la nonna riprese a parlare dopo un momento di silenzio. A quel punto entrammo noi ragazzi rompendo quel momento così intenso. Il nonno e la nonna smisero di parlare. Dopo qualche minuto la nonna ci disse che loro dovevano andare a Montecatinialle termee che quindi noi ragazzi saremmo dovuti tornare a casa. Mi ricordo tuttoadesso: tornammo a casa e circa dieci giorni dopo la mamma morì. Noi non capimmo esattamente tutto ciò che accadde in quei frenetici giorni di fine estate ma il nonno e la nonna divennero da allora il nostro punto di riferimento e il papà si ritirò in un mondo tutto suoin cui non era permesso l’accesso a nessuno. Si chiuse in quella sua solitudine finché un giorno di qualche anno dopo riuscì a "scappare e volò incontro alla morte felicelibero come un gabbiano". Mi ricordo ancora quando mi disse queste parolepochi minuti prima di andarseneforse le prime parole dopo anni di ostinato silenzio. Ora vedevo il papà sul letto di morte e accanto a lui il nonno che piangeva. Non l'avevo mai visto piangere. Staccai le mani dal tronco e m'incamminai verso la porta della cantina. Era aperta. L'aprii e vi entrai. Fui investito da un fortissimo odore di muffa e non si vedeva nulla. Accesi un fiammifero e vidi una quantità di ragnatele e di polvere che mi fece desistere dal proseguire oltre. Sarei voluto entrare nel cuore del mondo di mio nonnonella dimora dei suoi attrezzitoccarlirivederlima trovai decine di scuse per impedirmi di andare oltre la soglia. Mi voltai di nuovo verso il maestoso albero e mi venne ancora voglia di toccarlodi accedere al mondo della mia infanzia ma rimasi bloccato a fissarlo. Quel tiglio fu piantato dal padre di mio nonnoin omaggio al nuovo secolo che iniziava; praticamente era la primavera del 1900. Aveva un che di magico quell'alberospettatore di un secolo impressionanteeppure cronista di un mondo così piccolo come la vita della mia famiglia. Ecco cos'era: il narratore della storia del mio piccolo mondo. Mi tramandava le immagini della mia vita e di quella dei miei cari. Non capisco perché abbia voluto fare questo proprio a mema lo fece e ne fui felice. Quel giorno capii quanto certi ricordidimenticatipersi nella nebbiaerano invece fondamentali per conservare intatti certi valori. Decisi che avrei chiamato mio fratello Giulioche non sentivo da un paio d'anni; anzil'avrei portato qui emagari insiemeavremmo poi rimesso in sesto la villa. Mi avvicinai dunque al tiglio per guardarlo ancora da vicino. Lo toccai di nuovo ma questa volta non mi fece vedere nulla. Mi parvema ancora lo credo davvero impossibileche mi porse uno dei rami bassi. Colpa della tensioneprobabilmente. Comunque presi un ramopieno di germoglie lo portai in macchina con me. Chiusi il cancello e voltai la macchinaritornando verso la statale. Decisi però di non tornare a casa subito. Passai prima dal cimitero ed andai sulla tomba dei miei nonni e su quella dei miei genitori e deposi il ramodividendolo in duesui monumenti. I germogli sarebbero rimasti intatti per molto tempofinché la linfa che percorreva i rami li avrebbe nutriti. Mi voltai e mi diressi verso l'uscita. Mi accorsi che una lacrima mi stava scorrendo sulla guancia. L'asciugai e affrettai il passodovevo fare quella commissionealtrimenti avrei fatto davvero tardi.